Una data ufficiale non c’è, foto celebrative nemmeno. Si parla genericamente degli anni Venti, chi giura verso la fine, chi invece scommette sui primi anni. Il fascino delle tradizioni, in fondo, è anche – o forse soprattutto – quello di emergere dal tempo come qualcosa che c’è sempre stato e che, si immagina, sempre ci sarà.
Certo quei signori dalle maglie raccogliticce, che un ferragosto di tanti anni fa si misero a segnare il campo nello spiazzo davanti alla chiesa, non avrebbero mai immaginato che quella sfida, inventata per ingannare la noia di un giorno di festa, sarebbe diventata un appuntamento fisso, una data che avrebbe scandito l’estate di Comabbio, più o meno come la festa di San Giacomo, il fuoco al palloncino, la processione.
Da allora, da quel non identificato 15 agosto degli anni Venti, la partita di ferragosto, Milano contro Comabbio, vedeva il paese intero raccolto intorno alle due squadre. Partita vera, cattiva, capace di dividere per un giorno le famiglie: marito a dannarsi l’anima per il Milano e moglie a tifare Comabbio (o viceversa), figlio con la maglietta del Milano e padre a soffrire a bordo campo, ricordando i giorni in cui guidava l’attacco comabbiese. O ancora due fratelli “novaresi” in campo, uno di qua e l’altro di là, per via di quelle simpatie innate che ti fanno preferire una compagnia all’altra, a scambiarsi ben altro che fraterni buffetti. E poi il pubblico: spalti esauriti in ogni ordine di posti – avrebbe commentato con la sua voce roca uno come Sandro Ciotti – e rigida divisione tra le tifoserie, come a tutti i derby degni di questo nome. Il paese davvero si fermava e si fermava pure la corriera che, fino a qualche anno fa, passava ancora proprio accanto al campo.
Non c’è stato ragazzo a Comabbio che non abbia provato – o sperato – di giocarsi quella partita che aveva imparato ad aspettare fin da piccolo, quando attaccato alla rete, faceva il tifo per il suo papà. E chi proprio con il pallone non sapeva che farci, si ingegnava, soprattutto tra i milanesi, a reclutare, per quella giornata, qualche amico dai piedi buoni. Che quando erano troppo buoni, prima suscitavano mugugni e qualche rimostranza non proprio all’insegna del fair –play, poi assaggiavano i tacchetti di qualche comabbiese, magari meno dotato di tecnica e inventiva, ma sicuramente più motivato a ribadire una supremazia “territoriale”.
E poi c’era il terzo tempo, roba da far invidia al più celebrato rito del rugby, giocatori, parenti, amici a cena insieme e chi perdeva doveva pure pagarla. E con loro amici e parenti, in una festa che in qualche modo segnava la fine dell’estate.
Oggi certo non è più così. La rivalità – mai apertamente dichiarata ma di sicuro ben presente e radicata – tra chi a Comabbio le ferie le passava per forza – magari a falciare i campi e a preparare il fieno per l’inverno – e chi se le godeva in barca o in riva al lago, si è andata stemperando con gli anni. C’è ancora tanto agonismo, ma senza il furore di una volta. E soprattutto c’è ancora, dopo quasi un secolo, la partita e la forza della sua tradizione. Perché, alla fine, nonostante tutto, Milano –Comabbio non è e non sarà mai una Scapoli –Ammogliati.