Da un antico racconto popolare riportato da Alessandro Raimondo Beverina (Verbania, Anno I, n. 1, 1909, pp. 14-15) ecco la leggenda del Monte Picuz, lo sperone di roccia che domina il paese di Sangiano.
“C’era una volta sulla vetta del Monte Picuz un maestoso turrito castello, al quale convenivano da ogni parte del mondo i più famosi cavalieri per ossequiare la bellissima castellana, che signoreggiava la plaga incantevole del Varesotto.
E lassù nelle sale dorate, alla luce di mille doppieri ed al suono dei liuti e delle mandole l’eletta schiera indugiava fra lieti conviti, danze e piaceri.
Ma come talvolta fra le odorose erbe ed i profumati fiori si nasconde il serpe velenoso, così sotto le leggiadre apparenze della gentile castellana covava l’anima più abbietta e vile di femmina che abbia mai visto la luce del sole.
La castellana, col suo fascino da maliarda attirava a sé il fiore dei cavalieri che incauti salivano a recarle l’omaggio della propria anima. Ella spogliatili delle armi, dopo una infida e perigliosa prova al giuogo faceva immolare dai suoi servi ogni notte il più valoroso ed avvenente garzone della schiera agli Dei infernali, che avevano nel sotterraneo del castello altari e vittime.
Tale terribile condizion di cose continuava da lungo tempo incutendo spavento nei vicini terrieri, tutti dediti all’agricoltura ed alla pesca. Costoro guardavano atterriti quel maniero e soventi volte fuggivano tremanti ai cupi latrati dei feroci mastini che stavano a guardia delle mura.
Ma la bella e fatale donna, così sempre la leggenda, aveva in sé il potere arcano di richiamare i più prodi e saggi cavalieri dalle più lontane contrade, i quali, ben sapendo d’andare a secura morte, sfidavano ogni ostacolo pur di vedere ed ammirare la regina, che sapeva così dolci lusinghe…….
Era una notte incantevole d’estate; nel firmamento brillavano miriadi di stelle; tutto all’intorno era silenzio e pace, e solo lassù al turrito castello del Picuz allegramente si vegliava fra lieti concerti.
Al castello quella notte si erano dato convegno più di cento cavalieri; le mense erano già sparecchiate e gli ospiti uscivano all’aperto per godere lo stellato cielo e la recondita armonia che su dalla valle saliva, parlando un linguaggio pien d’amore e di mistero, mentre nelle sale dorate echeggiavano gli accordi delle viole e dei liuti.
Fra gli ospiti trovavasi un giovin cavaliere che, prode e virtuoso, venuto a conoscenza di quanto compivasi lassù al castello del Picuz, avea giurato in cuor suo di liberare la plaga del Varesotto dalla malvagia signora.
Il giovin cavaliere, di nome Giano, viveva solingo in uno isolotto del Lago Maggiore nelle vicinanze dei Castelli di Cannero, isolotto ora scomparso per le furie delle onde, che continuamente lo flagellavano. Giano, dall’anima indomita e dal cuor di leone, glorioso discendente di forte e fiera stirpe, poche ore prima avea salpato dal suo romitaggio con un forte manipolo de’ suoi fidi ed era giunto solo al castello del Picuz accolto con sovrana cortesia dalla fatale signora e salutato entusiasticamente da quanti già vi si trovavano.
Intanto i guerrieri di Giano in seguito ad istruzioni del duce e sulla scorta di notizie raccolte dai buoni ed impauriti terrazzani, riusciti a scoprire una via sotterranea che dal castello, tutt’ora esistente di Leggiuno conduceva al maniero del Picuz, armati fino ai denti, al chiaror delle torce, giungevano sotto alle mura del castello.
Su al castello, il nobile e forte Giano, in apparenza gioviale ed allegro, giocava l’ultimo dado, che se gli fosse stato favorevole avrebbe dato la gloria all’invitto cavaliere, la vita a tanti giovani cuori, ed infine la pace e la prosperità alle popolazioni, che già incominciavano ad abbandonare frementi d’ira e tremanti di paura quegli ubertosi campi.
Il dado è gettato; la castellana cogli sguardi cupidi annuncia la vittoria ed ordina ai sicari che Giano, il più baldo ed avvenente garzone della brigata venga trascinato giù nel sotterraneo ed immolato agli dei crudeli dell’inferno.
Giano a tal sentenza non dice parola, né impallidisce: solo lo sguardo suo fa noto a tutti i presenti che qualche cosa di nuovo sta per succedere; ad essi, atterriti, stupiti, rivolge un saluto e seguito dalla castellana e dai sicari si avvia con piede fermo verso il sotterraneo.
Già i sicari stanno per consumare il delitto quando da una porta che nasconde la via sotterranea, irrompono con le daghe sguainate i prodi guerrieri di Giano assalendo ed uccidendo i sicari, la castellana e quanti la terribile femmina ha ai suoi servigi.
Alle grida dei morenti tutto il castello è in moto; Giano alla testa dei suoi ascende, raggiante di gioia, alle sale e a tutti così parla: «Cavalieri, il sangue di tanti nostri fratelli, caduti sciaguratamente nelle mani della fatale regina, che ora giace accanto ai suoi idoli infranti, è stato or ora solennemente vendicato dai miei fedeli guerrieri. A noi tutti il dare il lieto annuncio agli amici ed alle popolazioni; domani questo castello sarà raso al suolo».
E così avvenne; sparve il castello e solo, oggidì, esiste un largo crepaccio, covo di assiuoli e gufi, ove vuolsi che vi sia stato il sotterraneo in cui gli idoli della castellana erano onorati di vittime umane.
Il ricordo del prode Giano, venuto in soccorso di quella terra, s’impresse così nel cuore riconoscente degli abitanti che la tradizione lo fece santo ed il paese edificato ai piedi del monte Picuz ebbe il suo nome.”